Per capire che cos’è l’inbound marketing, partiamo dai call center e parliamo del suo contrario, cioè l’outbound marketing.
Spesso, un concetto viene compreso meglio se è viene spiegato in contrapposizione con il proprio contrario e se si fanno degli esempi tratti dalla vita quotidiana.
OUTBOUND MARKETING E INBOUND MARKETING
Quando ci chiamano per proporci un servizio o per invitarci a cambiare gestore telefonico o fornitore di energia, fanno outbound markerting.
Se notate, la parola contiene il prefisso “out”, che in inglese significa “fuori”. Ci fa capire che è l’azienda che si propone a noi. È l’azienda che e va fuori (in senso metaforico) e ci cerca.
Il grande problema di questo modus operandi è che si rischia di disturbare la gente. Infatti, molte persone reagiscono male quando ricevono una telefonata di questo tipo.
Esistono delle forme meno invadenti di outbound marketing come gli SMS promozionali e le newsletter.
Già il fatto che nessuno c’interrompa quando stiamo facendo qualcosa, di non dover interagire con uno sconosciuto e di poter decidere se e quando leggere i loro contenuti ce le rende meno sgradevoli.
Le sponsorizzazioni sui social sono qualcosa di analogo agli sms promozionali e all’email marketing. L’azienda targetizza un certo tipo di pubblico e chi rientra in quei parametri vede il post o la pagina.
L’outbound marketing che non ci costringe a parlare con qualcuno è più tollerabile.
Inoltre, potremmo dire che sms promozionali, newsletter e contenuti sponsorizzati (o forse anche altre forme di comunicazione digitale) stanno quasi sul confine tra l’outbound marketing e l’inbound marketing perché c’invitano a cercare l’azienda.
Infatti, l’inbound marketing si ha quando una persona cerca o contatta spontaneamente un’azienda. Ovviamente, ogni azienda vorrebbe che chi l’ha cercata (sui motori di ricerca e/o sui social) la contattasse e ne acquistasse i prodotti o i servizi. Si chiama “customer journey”.
Uno dei modi più efficaci di fare in attirare visite e contatti (e quindi di fare inbound marketing) è puntare sulla creazioni di contenuti interessanti. Per interessanti s’intende: o incentrati sul problem solving o che danno informazioni e spiegazioni.
Naturalmente, più un articolo è in alto nella serp e più è probabile che le persone lo trovino. La seo serve soprattutto a questo.
A questo proposito, un bel titolo e una meta description accattivante possono essere un buon rabbit hole.
RABBIT HOLE, BRAND E MOTORI DI RACCOMANDAZIONE
Che cos’è il rabbit hole? Si tratta di un’espressione mutuata dal transmedia storytelling e non è altro che il modo di cui si entra in una storia. Esempi classici di rabbit hole sono l’incipit di un libro, un qr code o un url.
In questo articolo, abbiamo esteso il concetto e con rabbit hole intendiamo “quello che fa entrare una persona nel mondo di un’azienda o di un’associazione no profit”. Come potete immaginare, l’espressione deriva da Alice nel Paese delle Meraviglie e dalla tana del Bianconiglio. La letteratura e il marketing (in questo caso, quello di tipo inbound) s’intrecciano.
Naturalmente, un’azienda raggiunge il top quando gli utenti cercano il suo nome sui motori di ricerca o digitano il suo indirizzo. È la query navigazionale. Per far sì che avvenga, bisogna lavorare tanto sul brand.
Sempre a questo proposito, se vogliamo che qualcuno ritorni su una pagina che ha già visitato, è preferibile utilizzare uno slug parlante invece che uno slug parametrico.
Anche i contenuti digitali suggeriti dai motori di raccomandazione rientrano nel discorso dell’inbound marketing.